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Siamo  dunque arrivati al terzo capitolo della discografia dei Cream: Wheels of Fire, considerato da molti il loro capolavoro, fondamentalmente grazie a una traccia, White Room, ma andiamo con ordine. Nella recensione di Disraeli Gears avevamo accennato all'influenza che l'astro nascente Jimi Hendrix aveva esercitato sui tre componenti dei Cream, in particolare su Clapton, che era rimasto talmente colpito dal giovane chitarrista di colore da decidere di farsi fare la stessa pettinatura, come segno della sua grande ammirazione. Tuttavia, se è vero che Clapton era rimasto stregato dalla bravura e dal carisma di Hendrix, è altrettanto vero che gli altri due componenti invece vedevano Hendrix come una minaccia. A tal proposito Clapton in un'intervista dichiarò : "Mi ricordo il giorno in cui ho conosciuto Jimi. Stavamo suonando al Politecnico di Londra.  Jimi era arrivato in Inghilterra proprio quel giorno e Chas Chandler lo portò a vedere il nostro show. Disse che gli sarebbe piaciuto suonare, così si alzò , prese la chitarra e suonò Howlin 'Wolf "Killing Floor". Ancora oggi non so molte persone che riescano a suonare quel pezzo.. È un brano molto, molto difficile, ma Jimi lo suonò. Ricordo di aver pensato: "Mio Dio, questo è come Buddy Guy in acido". Ero innamorato di lui (Hendrix). Credo che Ginger e Jack si sentissero minacciati, probabilmente perché avevano già intuito che Hendrix stava per monopolizzare il mercato discografico. Io , invece, ero incredibilmente sollevato. Mi tranquillizzava sapere che c'era qualcun altro sul pianeta che era dedito a quella musica come lo ero io. Certo, era un uomo di spettacolo. Ma sapeva che cos'era il blues. Ero davvero ansioso di conoscerlo e di trascorrere del tempo con lui. Ma lui era un ragazzo sfuggente e non dimostrò mai disponibile a stringere amicizia. Io ancora non so quale fosse il vero  problema con lui o quali fossero i suoi motivi, quale fosse il suo piano a lungo termine e nemmeno se ne avesse uno. Sicuramente ha fatto crollare il terreno sotto i piedi dei Cream. Avevo  parlato a gente come Pete Townshend di lui e ci sarebbe piaciuto andare a vederlo esibirsi in qualche club. Continuavo a chiedermi come avrebbe fatto a fare dal vivo quello che aveva fatto sul disco. Poi siamo andati in America per registrare Disraeli Gears, mi sembrava un disco incredibilmente buono, ma quando siamo tornati nessuno era interessato perché era appena uscito Are You Experienced ed aveva spazzato via tutti gli altri, noi compresi. Non so come ci fosse riuscito, ma Jimi aveva preso il blues e l'aveva reso incredibilmente all'avanguardia. Mi sentivo in soggezione di fronte a lui.". Abbiamo voluto inserire questo straccio di intervista, che apparentemente esce un po' fuori tema, perché ci aiuta a capire due cose: la prima è il clima che si respirava all'interno di Cream, stressati, perennemente sotto pressione, già devastati dai problemi interni al gruppo e con il ciclone Hendrix che minacciava di portar via tutti i loro sforzi in un batter d'occhio e proprio a casa loro. La seconda cosa è il motivo per il quale Clapton era l'unico, oltre a Hendrix , a usare il wha- wha in quegli anni. Se qualcuno avesse dubbi sul fatto che la scelta di Clapton fosse dettata dalla sua ammirazione per l'emergente chitarrista, è lui stesso a togliere ogni dubbio " L'ho preso al negozio di chitarre di Manny a New York, credo. Mi avevano detto che Jimi ne  aveva uno uguale e per me tanto bastava. Se l'aveva lui, dovevo averne uno anch'io. Mi è piaciuto perché sembrava che qualcuno di parlasse e mi ha ricordato di Sparky e quei ragazzi record con tutti gli effetti. "Tales Of Brave Ulysses" è stato influenzato molto dalla cultura hippie, perché le parole sono state scritte dal mio coinquilino, Martin Sharp, che ha anche fatto le copertine per i nostri dischi più famosi. Aveva questa linea di chitarra che pensavo fosse unica nel suo genere, che nessuno l'avesse mai fatta, ma in realtà è esattamente lo stesso di "Summer In The City". Forse inconsciamente mi sono rifatto a quel brano, perché adoravo The Lovin 'Spoonful.  Sembrava così facile da scrivere, e con il pedale wah-wah e i testi incredibili di Martin, mi sentii come se avessi fatto davvero una sorta di una svolta epocale.". Dunque l'uso del wha-wha, insieme, all'enorme libertà che ogni musicista si prendeva sul palco, era una delle caratteristiche che distinse i Cream da qualsiasi altro gruppo della fine degli anni sessanta. Tuttavia ,se è vero che la libertà di suonare "a braccio", senza alcun tipo di restrizione, era il punto forte del trio, è altrettanto vero che alla lunga divenne il suo tallone di Achille, esaltando la competizione tra le tre prime donne ed esasperando i punti deboli di quest'unione , fino ad allora, fortunata. Questo diviene particolarmente evidente ascoltando le tracce, registrate durante un live (teoricamente a Fillmore, in pratica però solo una delle quattro canzoni venne registrata effettivamente durante l'esibizione del trio in questa località statunitense) e contenute nel secondo disco di Wheels of Fire . La carica trascinante che il gruppo riusciva a donare al pubblico durante i concerti è riportata interamente in questo disco; rimane ad esempio famosa la versione di Spoonful che copriva quasi per intero la terza facciata. Accanto a questo però il long playing (alcune tracce durano più di sedici minuti) faceva anche trapelare le prime avvisaglie dei grossi attriti fra i tre artisti, che li avrebbero portati a sciogliersi in un futuro non troppo lontano. Per incidere il loro terzo lavoro, il trio diventa un quartetto avvalendosi di Feliz Pappalardi, che si occuperà delle parti di viola, basso, campana e organo. La maestosa e doomy "White Room" consacrò il trio a leggenda, rendendo così ancora più scioccante l'annuncio che arrivò pochi mesi dopo: nel novembre 1968 infatti la band eseguì il suo ultimo live, annunciando al mondo il loro scioglimento. Il quarto album uscirà dopo la loro separazione e verrà inciso solo per rispettare gli accordi presi con l'etichetta discografica. Come abbiamo detto questo album si compone di due sezioni una in studio e una dal vivo, che prendono appunto il nome di In The Studio e di Live at Filmore. I brani studio li troviamo tutti racchiusi nel primo disco.
Quest'ultimo si apre con uno dei capolavori assoluti del triumvirato inglese:  White Room (Stanza Bianca). Il brano composto da Jack Bruce è sostanzialmente il capostipite del filone musicale, che esploderà con tutta la sua potenza qualche anno dopo, investendo tutto l'emisfero occidentale: il pop rock. White Room è caratterizzata da un decrescendo melodico accattivante, reso ancora più irresistibile dalle sezioni di chitarra di Clapton, che si muove al limite tra ritmo e armonia, utilizzando intensivamente il wha-wha. Baker fa poco più del minimo indispensabile, ma lo fa con la classe e la precisione che da sempre lo contraddistinguono; così che anche il gioco di cassa e piatti più banale diventa magico. E che dire di Jack Bruce? Beh, lui è immenso come sempre. White Room l'ha scritta lui e si sente: la sua voce e il suo basso dominano su tutto, sembra quasi che la batteria sia solo una mera matrice su cui divertirsi a creare ritmi e armonie immortali. Quanto alla chitarra, Clapton dà indubbiamente un contributo importante alla magia di questo trascinante tassello della storia della musica , ma le occasioni in cui gli viene consentito di emergere  sono veramente poche, per lo più si limita a fare una sorta di contraltare alla sezione ritmico-armonica di Bruce. In tutto questo però, c'è anche l'occasione di utilizzare come introduzione, intermezzo e chiusura del brano un enfatico bridge in cinque quarti, da ritmo ruvido, che in netto contrasto con il lineare e trascinante sviluppo della strofa. Il testo narra di un onirico luogo, una città in regnano sovrani i contrasti cromatici, quasi una metafora della band stessa. La stanza bianca in cui l'autore aspetta la sua amante è adornata con tende nere. Fuori dalle mura i marciapiedi sono di un colore che ricorda l'oro, pur non essendo fatti di questo metallo. I cavalli invece sono color argento e poi c'è ancora il contrasto tra la luce dei raggi della luna e l'oscurità degli occhi di lei. La stanza bianca però è essa stessa in contrasto con l'ambiente che la circonda, è come una sorta di rifugio dall'oscurità del mondo, dalle bugie di chi lo abita. Infine si conclude il brano, lei non è arrivata, ma lui continuerà ad aspettarla nella città delle anime perse, sotto gli alberi, che in qualche modo, esattamente con la stanza bianca, sembrano tenere lontane le ombre e con loro tutti i mali e le bugie del mondo. Una canzone che, esattamente come Sunshine Of Your Love, è divenuta sia un caposaldo della discografia Cream, che un pilastro del rock anni '60; i suoi ritmi sempre a metà fra psichedelia, Blues e Pop da classifica, senza mai sfociare completamente nel commerciale, ne fanno una struttura musicale senza precedenti. Quella digressione musicale dopo il primo silenzio, un ritmo che tanti e tanti artisti hanno poi ripreso nel corso della storia, dona a questa apertura di disco un sapore di epico. Non si sa bene da dove provenga, la fervida mente di Jack ha sicuramente vagato per comporla, andando ad esplorare l'anima più "fluo" della musica stessa, ed è per questo che nel corso degli anni successivi alla scomparsa della band, White Room è stata accostata ad altrettante canzoni acide sessantiane, come White Rabbit dei Jefferson, Purple Haze o Somebody to Love. 
Con la seconda traccia si cambia completamente registro. I tre infatti con la cover di Sitting on Top of the World (Sedendo Sulla Cima del Mondo), scritta da C. Burnett, si sbizzarriscono nell'esecuzione di un "Nodoso" blues di Howlin' Wolf, classicissimo. Howlin è considerato uno degli american bluesers per eccellenza, nonché una delle colonne portanti di quel che poi negli anni '70 esploderà in tutta la sua potenza sotto il nome di Electric Blues. La voce così cavernosa e calda al tempo stesso, unita alla sua innata abilità oltre che con la chitarra, con l'armonica a bocca, ne fanno uno dei cantanti e compositori Blues più completi mai apparsi sulle scene. Con questa traccia Clapton, si prende per così dire, una rivincita sui compagni, imponendo la sua visione della musica. Il chitarrista infatti qui può assumere indisturbato, il ruolo di fine esecutore , cosa che gli riesce sicuramente meglio del comporre. Per quanto sia bello e metta in risalto le indubbie abilità di Clapton, questo brano è anche uno dei tanti segnali dell'imminente e ineludibile implosione del trio. Tra Clapton e gli altri due c'è un divario incolmabile: lui ama il blues più classico, non è particolarmente bravo a comporre e (come risulta evidente anche dalla sua carriera solista) non sente il bisogno di sperimentare e fare veloci incursioni in generi diversi dal suo grande amore. Come ogni blues che si rispetti, anche in Sitting on Top of the World la chitarra e la voce primeggiano su tutto il resto, sebbene Bruce non si faccia da parte neanche in quest'occasione e usi il suo basso per dare più sostanza al brano e legare insieme le varie sezioni che lo compongono. Il testo parla di una relazione finita. Una sorta di continuo " Sto bene, non preoccuparti" in risposta a un amico che cerca di capire come hai preso la fine della storia. Letteralmente dice " Se ne è andata, ma non preoccuparti, sono in cima al mondo", come a dire " si, ok è finita, magari non sto benissimo, ma non ho perso tutto". Sicuramente un'altra delle tracce più interessanti di tutto l'album, per quanto giovi alla stessa che la base da cui viene estrapolata sia ottima. Tuttavia, come abbiamo detto, emerge in maniera abbastanza pesante l'incrinatura che si stava sempre più allargando fra i tre; Clapton non è mai stato un compositore, e questa regola permane ancora oggi. Il suo modo di vedere la musica è imbracciare la chitarra ed andare avanti, un po' come faceva anche Jimi stesso, solo che a Jimi il talento nel comporre non è mai mancato, per quanto fosse una composizione "improvvisata". Rimane comunque questo secondo slot l'ennesimo esercizio di stile del nostro slowhand, scale che si intrecciano fra loro formando disegni astrali, il tutto supportato dalla magia delle Blue Notes. 
Andando ancora avanti troviamo un altro segnale della scarsissima intesa che c'è tra i tre musicisti: Passing The Time (Passando Il Tempo) è  il primo brano scritto da Baker che si incontra nell'album. Il produttore Felix Pappalardi la arrangia in maniera più che psichedelica, con glockenspiel ( uno strumento idiofono a percussione. Generalmente il più diffuso è quello formato da due file metalliche orizzontali disposte come i tasti di un pianoforte e viene suonato con due o più bacchette, per riprodurre un suono molto simile alle campanelle natalizie, nella storia è stato utilizzato da molte bands, soprattutto della corrente psichedelica, ma anche dagli Stones) e la  Calliope ( un organo a vapore) alla maniera dei Beatles, per un risultato complessivo che in alcuni punti ricorda un po' le atmosfere create da un altro gruppo, che era nato pochi anni prima a Londra e che avrebbe fatto la storia: i Pink Floyd. Nell'insieme la terza tracia risulta abbastanza piatta, per gran parte della sua durata sembra una cantilena, quasi una ninna nanna. Solo nella parte centrale , la traccia prende velocità e acquista ritmo. Nonostante il brano sia scritto dal batterista quello che emerge in modo preponderante è la sezione ritmica/armonica dettata dal basso di Jack Bruce. Clapton, invece, non partecipa minimamente. In sintesi Passing The Time è un dialogo tra i due strumenti ritmici nella parte centrale e tra voce e gockenspiel nella prima parte e di nuovo nel finale. Priva quasi di mordente, considerando quello a cui i Cream ci hanno abituato nei primi anni di carriera, questa traccia si discosta un attimo dalle sonorità Blues a cui la band era così legata (o almeno uno dei suoi componenti), per andare a foraggiare il vessillo dello psych e del proto Space Rock. Una canzone che risulta essere una nenia senza confini, quasi Prog nella sua resa, pur non avendo né tempi dispari, né tantomeno atmosfere jazzate come base. Non così fondamentale nella carriera dei Cream, appare come un riempitivo, messo lì per fare da ponte fra la traccia precedente e la successiva, tuttavia si lascia ascoltare. Il testo racconta di una donna che aspetta il suo uomo a casa, da sola, in un lungo inverno rigido che sembra non avere mai fine. L'estate è lontana come il suo uomo, in viaggio per lavoro. In pratica è il racconto di una storia come tante: l'uomo che si sposta per motivi di lavoro e la moglie che lo aspetta a casa, scrutando la finestra nella speranza di vederlo tornare da un momento all'altro. 
Il tempo passa, la canzone finisce e arriva un'altra perla composta interamente da Jack Bruce e come tale tira l'acqua al mulino del proprio creatore senza lasciar spazio agli altri due componenti che rimangono uno completamente tagliato fuori dai giochi, l'altro confinato al charleston semiaperto. Stiamo parlando di As you Said (Come Hai Detto) , brano che in cui il bassista abbandona temporaneamente il suo strumento principale, per mostrare le sue abilità alla chitarra acustica."As You Said", composta e suonata dal bassista alla chitarra acustica, contiene gli evidenti germi di quel modo di comporre a lui caro, un po' astruso e melodicamente faticoso. Baker è confinato al solo charleston, anche qui Clapton soprassiede del tutto, al suo posto , a sostegno di Bruce interviene la viola di Pappalardi. Anche As You Sayd è una traccia con uno sviluppo piuttosto lineare. I principali momenti di pathos sono dati dalla voce di Bruce e dalle plettrate più decise dello stesso. Un  altro riempitivo, un altro buco che i Cream hanno voluto riempire con qualcosa che non gli appartiene fino in fondo; e nuovamente emerge chiaro come il sole l'incrinatura che si stava verificando. Quando metti insieme tre galli nello stesso pollaio, il risultato cacofonico non può che essere esplosivo (ed i primi due album, soprattutto Disraeli, lo confermano in pieno), ma alla lunga la voglia di emergere scoppia, fino ad assumere dimensioni mastodontiche. Il risultato che ne viene fuori è una musica stanca, dettata forse più dagli accordi con la label che da altro, e soprattutto si percepisce bene l'astio, quella voglia di primeggiare di ognuno dei componenti, come se volessero essere sempre in prima fila. Tutto ciò lo dimostra il fatto che ogni sacrosanta occasione è buona per uno dei componenti di mettersi davanti agli altri, eclissando il resto. Nessuno di noi ovviamente era presenta durante le sessioni di composizione e registrazione, ma possiamo ben immaginare che l'atmosfera che si respirava era davvero elettrica, anzi, densa di scintille scoppiettanti, non più riflessiva e fresca come un tempo. La lirica è una sorta di lettera a una vecchia amante, che prende spunto dal ricordo di qualcosa che la donna aveva detto prima della loro separazione. L'uomo prova a ripercorrere la loro storia, a immaginare ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, per poi arrivare alla conclusione che tutti i treni (le possibilità) sono spariti e che non potrà più tornare indietro. Melanconia ed emozioni permeano il testo, e riescono anche in parte a sollevare la musica, che come abbiamo detto risulta essere un po' lineare, forse piatta in alcuni frangenti.
Proseguendo nell'ascolto ci imbattiamo in Pressed Rat and Warthog (Ratto Pressato e Facoceri) , un altro parto della mente di Baker. Il disturbato autore del brano, Ginger Baker, si produce personalmente in un compìto recitato, mentre Bruce si mette alla prova con il flauto, e nel frattempo il tutto viene supportato da Pappalardi che suona la tromba. Quello che ne risulta è una sorta di marcia dal sapore folk, resa più vigorosa dalla forza impressa dal batterista sui suoi amati timpani, facendo così tanto fracasso che verso la fine del brano anche Clapton si concede di scendere al loro livello e infila il jack dell'ampli, concedendosi quattro svisatine in dissolvenza. Forse il brano in cui maggiormente viene fuori, come era accaduto anche in dischi precedenti, l'anima jazzista di Ginger. Il suo voler continuamente stupire e fare "chiasso" col proprio drum set, risulta a tratti disturbante, a tratti completamente geniale. Se è considerato uno dei drummer più influenti degli ultimi 40 anni un motivo ci sarà, ed in questa canzone si evince abbastanza bene. Possiamo anche considerarla come la canzone in cui vengono fuori alcune venature Jazz classiciste, date anche dalla tromba di Feliz, che dona un fascino irresistibile a tutta la struttura, portandola avanti man mano che si procede nell'ascolto. Il testo è un racconto delirante, di quelli che leggi e pensi immediatamente "l'ha scritto mentre era fatto di acidi". Esso infatti parla di un  ratto pressato e di facoceri ,che a fine giornata chiudono il loro negozio, soddisfatti di aver venduto mele atonali e altre cose astruse. Comunque sia, la giornata dei due animali commercianti viene rovinata dalle forze dell'ordine che li minacciano di ritorsioni, se non chiudono definitivamente la loro attività e per essere sicuri che il messaggio venga compreso, picchiano il topo fino a rompergli una gamba. Sicuramente tutto questo doveva essere la metafora di qualcos'altro, ma non ci è dato di sapere a cosa pensasse il buon Ginger quando lo compose. 
La sesta traccia è un altro brano composto da Jack Bruce e J. Brown, ma stavolta il bassista si sforza di compiacere l'amico Eric e tira fuori un bel blues: Politician (Politico). Questo è sicuramente un brano ben riuscito, più di una volta è stato coverizzato da altri artisti, e si potrebbe quasi dire che è diventato un classico del blues "moderno". Politician resta aderente ai canoni del blues classico per tutta la sua durata, ed in gran parte sembra quasi un duetto ritmico tra Bruce e Baker, con Clapton che rimane sullo sfondo durante le strofe, per poi emergere nelle sezioni strumentali che separano le varie parti cantate. Il risultato è sicuramente apprezzato dagli amanti del basso blues, un po' meno forse dagli altri, perché tutto sommato, nonostante sia un brano magnetico, che ti tieni quasi sospeso in attesa di un qualcosa, che non si sa bene cosa sia, risulta piuttosto lento, fangoso, anche il "solo" di Clapton forse è un po' troppo lungo, quasi angosciante, per il suo distacco dal contesto strumentale creato dai suoi compagni d'avventura. Sensuale e fascinosa, come quasi tutto il Blues, dall'antico al moderno, questo slot è una enorme orgia di classe e stile, con un'attrazione verso l'ascoltatore che a tratti ha dello straordinario. Al di là dell'eccessiva lunghezza del solo di slowhand, il brano in sé per sé risulta essere accattivante fin dal primo ascolto, se lo uniamo poi ad un comparto lirico di prim'ordine, una enorme metafora sociale che si stampa in faccia all'ascoltatore, viene facile capire come mai anche questo brano sia entrato nella storia, non solo della band, ma anche di questo genere in toto. Il testo parla di un abbordaggio. Un uomo politico che sfrutta la sua posizione sociale e l'evidente ricchezza che lo circonda per provarci con una donna e cercare di convincerla a starci. Leggere oggi questo testo, in questo paese, non può che far un pò sorridere, sembra quasi di scorrere alcuni odierni e non odierni titoli di giornale. Un sorriso amaro sia chiaro, di esempi che potrebbero facilmente chiarirvi il messaggio contenuto in questo blues ce ne sono anche troppi, ma non è questa la sede per fare polemiche. Siamo quasi giunti al termine di questo  disco in studio.
La terz'ultima traccia è un'altra composizione firmata Ginger Baker, insieme a M. Taylor: Those Where the Days (Quelli Erano i Giorni). Il brano è  stato criticato da molti a causa  dell' uso abbastanza intensivo di campane tubulari, le cui risonanze, che secondo alcuni finiscono per coprire la chitarra di Clapton e disturbare il cantato di Bruce. Tuttavia chi scrive lo ritiene uno dei brani più interessanti contenuti in questo disco, non solo perché è uno dei pochi che abbia un po' di ritmo e di movimento, con uno sviluppo tutt'altro che piatto e lineare, ma anche perché finalmente il nostro buon Ginger fa pesare la sua presenza, risultando per una volta fondamentale, ed anche Clapton cerca di non essere da meno quando arriva il suo momento eseguendo un assolo divertente e un po' fuori dai suoi schemi. Un altro comparto musicale in cui viene fuori l'anima più sperimentale della band. Si va nuovamente a toccare i lidi psichedelici, ma con un fare nettamente più incisivo e meno banale di quanto avvenuto fino a questo momento. Straordinaria l'amalgama che ne viene fuori, che risulta dinamica e sincopata in ogni suo frangente, con un Baker in forma smagliante che da nuovamente lustro alla sua anima Jazz e Progressive, anticipando quel che avrebbe fatto poi successivamente, sia come turnista, che con i vari gruppi, come i Ginger's Baker Air Force ad esempio. La lirica è un pò una versione abbellita del classico "si stava meglio, quando si stava peggio". Taylor parte da Atlantide e arriva ai giorni della sua infanzia quando , forse, aveva meno beni materiali, ma giocava libero e felice in campagna sotto un cielo limpido , illuminato da un caldo sole. Si incastra bene la lirica nella musica, risulta essere un enorme viaggio introspettivo attraverso la storia dell'uomo. Contornati da ritmi così acidi e grezzi nella loro resa, il testo ci fa letteralmente viaggiare con la fantasia e con la mente, il tutto mentre i Cream ci raccontano in maniera distopica e folle una papabile storia della sofferenza che dilaga in questo mondo. Brano che, come abbiamo detto, risulta essere uno die più interessanti di tutto il platter, e che si va a piazzare quasi dietro alla mastodontica traccia di apertura, ed alla coverizzatissima Politician.
Troviamo poi un'altra cover blues, giusto per far contento il buon Clapton: Born Under a Bad Sign (Nato Sotto un Cattivo Segno)  di Brooker T. Jones.  Da un punto di vista strumentale, non c'è molto da dire su questo brano. Esso è quasi la copia esatta dell' originale. Ne mantiene sia la struttura, sia la cadenza del cantato, che per una volta è prima dei falsetti tanto amati da Bruce. Il titolo stesso ci indica l'argomento trattato nel testo: la sfortuna, l'esser nato sotto una cattiva stella , appunto. In sintesi è una riflessione, assolutamente pessimistica, su quella che è stata la vita dell'autore fino a quel momento o meglio, lo sarebbe se fosse stata scritta da uno dei tre inglesi. Trattandosi invece di un brano di B:T: Jones, potremmo senz'altro definirla realistica. La cattiva stella, alla fine, cos'è? Beh, è l'esser nato nel momento sbagliato, nel posto sbagliato e con il colore della pelle sbagliato. In particolare, a questo proposito una frase del testo è piuttosto emblematica " Sono rimasto sotto, dal momento in cui ho iniziato a strisciare". Le possibili interpretazioni si sprecano: potrebbe riferirsi al fatto che fin da bambino è dovuto sottostare alle leggi dei bianchi, che definivano lui e la sua gente "inferiori", " animali", "bestie" o ancora potrebbe riferirsi alla schiavitù, alla mancata o comunque insufficiente ribellione dei suoi avi alla potenza dell'uomo bianco. Non dimentichiamoci infatti da cosa proviene l'essenza stessa del Blues e delle sue spesso melanconiche liriche; l'analisi profonda e la consapevolezza di una vita che non sarà mai quella che vogliamo, il vagare per il mondo come anime perdute e dare sfogo al proprio dolore attraverso la musica. Booker.T viene considerato uno dei bluesers minori, ma il suo contributo certamente non è stato di piccolo impatto. Questa traccia, che anche se coverizzata ci da una reale idea di quel che era la versione originale (mantenendone intatte le strutture), un sofferto canto di dolore con la piena consapevolezza che la sfortuna non abbandonerà mai il tuo animo. Brividi solcano la nostra schiena mentre la ascoltiamo, e se nella cover dei Cream la voce di Bruce rende bene, se ci immergiamo nella calda e nera voce di T. ne rimaniamo ancor più estasiati. Andando ancora avanti troviamo un altro brano scritto da Jack Bruce.
Con i suoi 3 minuti e 48 secondi Desert Cities of the Heart (Città Deserte del Cuore) è un interessante mix di rock, blues e pop, in certi parti sembra addirittura anticipare le ritmiche di quella che sarà poi la dance music degli anni 70/80 ed in tal senso è un' altro dei pochi brani veramente interessanti contenuti in Wheels of Fire. Si apre subito con il cantato, ancora una volta il basso è decisivo. Clapton invece si impegna sulla chitarra acustica durante il canto e poi con l'elettrica nella sezione strumentale, ma l'armonia è quasi tutta ad appannaggio del bassista, con alcuni inserti di viola. Anche Baker fa un ottimo lavoro dividendosi tra cassa, charleston e altri elementi percussivi. Chiusura di disco assai interessante, in cui si cerca di dare fondo alle proprie energie residue per mettere in piedi una struttura a metà fra complesso e semplicità, che risulta davvero appagante mentre la si ascolta. Ogni componente per la prima volta forse dall'inizio del disco, se escludiamo l'opener e la traccia precedente a questa, sembra mettere da parte un attimo l'astio e l'odio che scorreva nelle vene dei membri, per concentrarsi finalmente sulla musica. Dispiace un po' che la ripresa sia avvenuta così a fine album, ma tutto sommato si tratta davvero di un grande disco, che i Cream sono riusciti a produrre e pubblicizzare in maniera ottimale, complice anche la beltà del contenuto. La lirica tratta ancora una volta di un amore, anche se non è chiaro se questo amore consista in una relazione finita o in un colpo di fulmine per una sconosciuta intravista tra le strade della città. Alcuni elementi del testo farebbero propendere per la seconda ipotesi. Il deserto che si percepisce quando una storia non inizia mai, ma quella persona ti piace particolarmente, risulta essere geniale nella sua esposizione. Il cuore di un uomo è come un dedalo di strade senza confine, aiutate e sottolineate dalle emozioni che sgorgano ad ogni angolo. Quando incontriamo una persona che ci piace davvero, il fulmine ci attraversa il cervello e divampa come un incendio, ma quando ci accorgiamo che quella persona non torna indietro o non ci ha notato quanto noi abbiamo notato lei, ecco che allora la desertificazione dell'anima prende il sopravvento, spazzando via ogni frangente di emozione, e lasciando il posto al dolore per non aver ottenuto quel che speravamo.
La porzione dal vivo esordisce con i quattro minuti di gran lunga migliori di tutta la carriera dei Cream, uno di quei classici episodi capaci di elevare le quotazioni di un'intera discografia, di una carriera.  Crossroads (Strade Incrociate) di Robert Johnson è resa con energia, pulizia e una coesione tra i tre musicisti, che non si era mai vista prima e che non si vedrà mai più. Quella sera Clapton, per qualche motivo, era in grande forma, ed emoziona il pubblico e gli ascoltatori presenti e futuri con alcuni degli assoli più magici e riusciti della sua intera carriera. La sua Gibson calda e melodiosa (il "woman tone", come veniva chiamato il suo peculiare timbro dell'epoca) scivola con uno swing perfetto fra i vari accordi blues del pezzo e disegna percorsi melodici messianici, rendendo il chitarrista immortale e consentendogli di essere ricordato come l'autore del comparto solista rock blues più bello di tutti i tempi, quello da far ascoltare, o ricordare, a chi pensa che Clapton sia un chitarrista decisamente sopravvalutato. Va detto tutta via che era proprio la serata buona, un colpo di fortuna, un momento di estasi , chiamatelo come volete, rimane comunque il fatto che Eric non suonò mai più così bene come quella sera. Altra cosa che va detta per dovere di cronaca è verso la fine sembra di percepire un pesante editing, come se tutta quella magia non fosse stata liberata in una sola sera, ma fosse il risultato della fusione di due serate diverse, perché i suoni cambiano sensibilmente nell'ultima manciata di secondi, soprattutto quelli della batteria di Baker e come si suol dire, questo ci fa un po' saltare la mosca al naso. Il canto, infine, è per una volta appannaggio di Clapton (unica sua esibizione vocale solista nel disco). Al tempo, il chitarrista non aveva ancora messo a fuoco le sue virtù vocali, come sappiamo bene, le svilupperà a pieno nel corso della sua carriera solista. Il testo è l'originale di Robert Johnson, bluesman degli anni venti, intorno alla cui figura venne ricamata una leggenda, che continua a rimanere viva ancora oggi. Si dice infatti che avesse venduto l'anima al diavolo per poter suonare la chitarra come mai nessun'altro aveva fatto. La lirica comunque parla dell'autore che aspetta qualcosa , qualcuno al bivio, una presenza o una persona, non ci è dato saperlo con certezza. Stando alla leggenda il bluesman avrebbe stipulato il patto con il diavolo proprio a un bivio e questa canzone sarebbe nata proprio per celebrare e ricordare questo patto.
Arriva poi il lento blues Spoonful (Cucchiaio Pieno), uno dei brani più convincenti che avevamo trovato nel disco d'esordio della band, e che qui viene prolungato a quasi 17 minuti di esecuzione , grazie ad inserti improvvisati sul momento, di sicuro coinvolgimento La  traccia viene aperta dal basso e dall'armonica a bocca, che duettano fino all'attacco della voce, a cui pian piano si uniscono prima la batteria e in seguito la chitarra. La sei corde duetta con la voce di Bruce durante il ritornello, mentre la sezione strumentale è nuovamente appannaggio dei giri di basso e dell'armonica. Il giovane "Slowhand" trova la rivalsa al termine del brano: il suo solo crea , sostenuto da Bruce , dal charleston di Baker e dall'armonica, un'atmosfera psichedelica e magica, che si trasforma , senza però scomparire del tutto con la ripresa del canto. Tra l'altro dobbiamo anche segnalare una cosa un po' particolare al termine di questa canzone: una lunga pausa, sembra che il brano sia finito e invece "scoppia" un fulmineo "Everything's a-dyin' about it...Yeah!" con tanto di ripresa corale degli strumenti, tanto che a un orecchio un po' distratto potrebbe far Potrebbe riempire cucchiai pieni di diamanti, potrebbe riempire cucchiai pieni all'inizio di un nuovo brano e invece è solo la chiusura di Spoonful. Il testo, per quanto possa sembrare assurdo e forse banale, ruota intorno all'immagine di un cucchiaio pieno. Ricordiamo che Spoonful era una cover di una canzone degli anni 20 , anni in cui avere un cucchiaio non era così scontato, meno ancora che fosse pieno di qualcosa, ma in questo caso è anche il simbolo di una misura, il tanto necessario a vivere "bene". "Un cucchiaio pieno di the", un "cucchiaio pieno del tuo amore", insomma un'immagine astratta di un qualcosa che fa sentire una persona più ricca, appagata, felice, come  dire "ho poco, ma quel poco mi rende comunque più ricco di tanti altri". Arriva poi Traintime, che vede  Jack Bruce alla voce e soprattutto all'armonica, grazie alla quale simula i suoni emessi da una locomotiva. Traintime si potrebbe quasi definire un  solo di Bruce, lungo quasi sette minuti. Si perché si limita a spazzolare il rullante e a dare qualche colpo sulla cassa. Clapton invece non si sa dove sia, l'unica cosa sicura è che non è sul palco. Questo è quello che si definisce " un brano fortemente soggetto al gusto personale", perché è tutto incentrato sulla figura di Bruce e sulle sfumature della batteria di Baker, se per emozionarvi vi serve qualcosa di più melodico e "aggressivo", sicuramente Traintime vi sembrerà di una noia immortale, quasi un esercizio di tecnica fine a se stesso. Con un titolo così , non è difficile capire di cosa parla il testo. Traintime è tutto incentrato sui treni, il paragone tra i vecchi e quelli più moderni, poi giusto per rendere il tutto un po' più appetitoso, Bruce ci infila anche il richiamo a una donna " prendi il treno bambina e vieni qui". Una canzone interessante senza dubbio, ma che è davvero per i puristi del suono; in questa versione live poi, così tirata per i capelli ed allungata fino allo stremo, il sapore che sentiamo sulla lingua è quello di un comparto sperimentale adatto alle orecchie di chi ha una cultura musicale abbastanza vasta. Sembra quasi, in alcuni angoli, un brano Fusion di metà anni '70, in cui si tendeva ogni tanto a lasciare la sei corde da una parte per concentrarsi sul basso e sulle pelli, pura sezione ritmica che sgorga in pieno nelle nostre orecchie. Se avete la mente abbastanza aperta, risulterà essere uno slot davvero straordinario, ma dovrete aprire le porte della vostra percezione fino all'inverosimile.
Siamo arrivati alla stazione, il treno "Wheels of Fire" fa capolinea a Toad (Rospo), una delle tracce più belle tra quelle che il trio aveva sfornato nel suo disco d'esordio, ma che dal vivo diventa mastodontica e forse un po' pesante raggiungendo i 16 minuti di durata per consentire ai suoi esecutori di alternarsi nel ruolo del protagonista e di mostrare al pubblico quanto sono bravi. Soprattutto Baker con "Toad" si profonde in un chilometrico solo di batteria, facendo la felicità degli appassionati di questo strumento, un po' meno quella di chi capisce poco e niente di percussioni e neanche è interessato a supplire questa mancanza. I tre quarti di Toad , infatti, già in Fresh Cream, erano a totale appannaggio delle percussioni di Baker, ed il tutto durava solo 4 minuti, dal vivo in pratica diventa una clinic a completo appannaggio delle pelli suonate dal nostro Ginger. Quello che resta viene suddiviso equamente tra Clapton e Bruce. Durata a parte, tutto il resto è più o meno identico alla versione studio. Chitarra e basso trovano spazio solo in due parti, una all'inizio e una alla fine del brano, e vede la partecipazione della chitarra di Clapton, che nonostante la sua bravura resta comunque relegato quasi ad una mera comparsa in confronto al maestoso e incontenibile estro di "Ginger" Baker. Si apre con un groove che richiama alla mente lo Swing, ma anche alcuni dei brani più famosi di Elvis Presley. Come abbiamo già detto , questo è un brano composto da Baker ed in quanto tale chiaramente pensato per mettere in mostra le sue indiscutibili doti alle percussioni. Queste ultime viaggiano tra ritmi tribali e sezioni più jazzistiche, pura fantasia libera di esprimersi a proprio piacimento tra tamburi, piatti, gran casse per poi ricollegarsi più o meno vagamente al tema che aveva aperto la traccia.

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