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Vero e proprio monumento della musica e più in generale dell’arte popolare del nostro passato prossimo, questo disco è comunemente indicato come l’acme di carriera dei quattro di Liverpool, la migliore raccolta del loro pop brillante e ispirato, allargandosi poi al ruolo di acclamato punto di riferimento per un’intera, magica era di spiritata creatività e spavaldo anticonformismo quale fu la seconda parte degli anni sessanta, la quale resta, malgrado i molti suoi difetti ed ingenuità, sicuramente il momento migliore di tutto il secolo scorso.
Una recensione di questo classico fra i classici rischia quindi di trascinarsi in interminabili contestualizzazioni storiche e di costume e lasciare inevitabilmente poco spazio alle note, alle canzoni, agli arrangiamenti, ai testi costituenti questo celeberrimo album. Vi sono d’altronde centinaia di pubblicazioni e di libri, più o meno reperibili e ben fatti, che inquadrano dottamente quest’opera, e più in generale il fenomeno Beatles, come manifesto del suo tempo. Meglio allora parlare solo delle composizioni e delle esecuzioni, dando per scontato che importanza storica e primario ruolo culturale, simbolistico, affettivo, sono e resteranno inattaccabili nel tempo.
E parlando allora di musica io sono fra quelli che non trovano, in questa pur ottima uscita datata 1967 del gruppo, tutta questa grandiosità da capolavoro. Stante l’elevato standard melodico e l’avanguardistico uso dello studio di registrazione, l’istinto sperimentale e lo sfrontato coraggio nel battere strade nuove, mi appare comunque ben chiaro come l’album manchi di centrare alcuni dei suoi obiettivi.
Il primo di questi è l’ambiziosa pretesa di album concepì. La storia della Banda dei Cuori Solitari del Sergente Pepe, parto soprattutto della mente edonistica di Paul McCartney, vogliosa di raccogliere i dettami psichedelici e proto progressive in piena esplosione all’epoca, si riduce in sostanza alla presenza di un’intro, e poi di una reprise, di un velleitario tema conduttore, nonché ad un paio di dissolvenze ed assolvenze incrociate fra canzoni contigue, ed infine allo spettacolare ambaradan della copertina, un autoindulgente guazzabuglio di colori e personaggi che ho sempre barattato volentieri con l’asciutto bianco e nero di molte altre loro cover, per tacere della minimalista ed autenticamente geniale “Abbey Road”, quella si efficace celebrazione del loro mito.
Il secondo obiettivo mancato è, come dire, la migliore scaletta possibile al momento. Col senno di poi resta un vero peccato che le splendide “Penny Lane“ e “Strawberry Fields Forever”, uscite quasi contemporaneamente su singolo, siano state escluse dall’album. Usava così al tempo, anche se non sempre… quarantadue anni dopo è facile lasciarsi andare al pensiero che quelle due canzoni, messe al posto di due riempitivi, avrebbero alzato di molto la media dell’album, a quel punto elevandolo veramente a capolavoro assoluto anche a mio gusto.
Già, i riempitivi... ce ne sono nel disco, a cominciare proprio dalla ripresa del pezzo che lo intitola, abbastanza inutile per le ragioni sopra esposte, e poi la Lennoniana “Good Morning Good Morning” che subito la precede, quella con i versi degli animali da fattoria. Che dire allora di “When I’m Sixty Four”? Il tipico esercizio di stile di McCartney, una riesumazione delle sue prime mosse compositive quand’era ragazzo, nonché un didascalica dimostrazione di creatività con il basso.
Poi, per carità, resta molta buona polpa nel resto dell’album, a partire dalla squisita filastrocca McCartneyana “With A Little Help From My Friends”, fatta cantare al suo batterista nel solito suo tono dimesso, ma simpatico e cordiale. L’ultra celebre “Lucy In The Sky With Diamonds” è poi intoccabile, pur col suo ritornello farraginoso e scorbutico. Vero simbolo psichedelico se ce n’è uno, è perfetta nella sua ricercata alterazione, colla voce di Lennon resa chioccia dalle variazioni di velocità del nastro magnetico, gli strumenti scampanellanti, i cambi di ritmo e di atmosfera.
“Getting Better” e “Lovely Rita” sono solide e brillanti creazioni di McCartney, senza però far gridare certo al miracolo: la prima di esse è in definitiva una “Penny Lane” in tono minore. Molto meglio la molto obliqua “Fixing A Hole” ed anche la triste ballatona “She’s Leaving Home”, dalla melensaggine controllata (grazie a Lennon, come sempre indispensabile, colla sua carica ironica e dissacrante, per non far ricadere il partner nei suoi tipici svolazzi all’acqua di rose).
Il contentino per George Harrison è di nuovo un pezzo “indiano”(era già accaduto nel precedente “Revolver”), a titolo “Within You Without You”; sarà l’ultimo prima che George si metta seriamente a contribuire con grandi composizioni agli album del suo gruppo.
Il gran finale con “A Day In The Life”, una canzone/suite che fa storia a sé (e che ha fatto la storia del pop), è quello che dà la mazzata finale alle pretese di album concepì, ma anche un valore aggiunto indispensabile alla gloria immensa del disco. Inizia Lennoniana da far paura (che voce!), si incrocia poi con la sua antitesi, un passaggio di purissimo, stolido McCartney, in una maniera che ancor oggi fa senso sentirla. E che dire dell’orchestra, per niente classica ma usata come un… mellotron, drammatica ed eccentrica di brutto. Una risacca interminabile di pianoforte riverberato, fino all’ultima vibrazione di corde e legno, pone fine a questo super pop sperimentale che spinge le coordinate della cosiddetta “musica leggera” molto, ma molto oltre i limiti di quel tempo. Una pagina allora nuova di zecca, a cui si ispireranno centinaia di futuri gruppi e migliaia di futuri dischi.

 

 

Tracce

Lato A

1. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
2. With a Little Help from My Friends
3. Lucy in the Sky with Diamonds
4. Getting Better
5. Fixing a Hole
6. She’s Leaving Home
7. Being for the Benefit of Mr. Kite! 

Lato B

1. Within You Without You
2. When I’m Sixty-Four
3. Lovely Rita
4. Good Morning Good Morning
5. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise)
6. A Day in the Life 

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